Luoghi insoliti e tipici da scoprire
con Stéphanie Guidissime Provence©
Particolarità della Provenza
Luoghi insoliti e poco conosciuti che meritano di essere scoperti...
Soggetti che rendono la Provenza...
"le lettere vengono aggiunte gradualmente..."

Il mandorlo è un albero che si può vedere ai bordi delle strade della Provenza alla fine dell'inverno e che annuncia la primavera...
Il mandorlo (Prunus amygdalus o Prunus dulcis) è una specie della famiglia delle Rosacee. È un albero da frutto con fiori, di un bianco leggermente rosato, che compaiono prima delle foglie. È il primo albero a fiorire a fine inverno, da fine febbraio a marzo, quando al mattino fa ancora freddo. Produce un frutto carnoso (o drupa) la cui polpa, formata da due valve, diventa secca una volta matura; il nocciolo contiene una mandorla commestibile. Il genere "Amygdalus" comprende 26 specie e un lungo elenco di ibridi. Per distinguere i mandorli selvatici da quelli coltivati, questi ultimi vengono chiamati “mandorli comuni”. La raccolta avviene tra giugno e luglio per le mandorle fresche e a settembre per quelle secche.
Il mandorlo si adatta bene alle regioni aride, come la Provenza, con clima mediterraneo e lunghi periodi di siccità, poiché necessita di luce, sole e aria secca. I suoi fiori sono sensibili al freddo, quindi è necessario che la pianta si trovi in una zona dove non geli durante la fioritura, altrimenti le temperature negative possono danneggiare le gemme. Predilige terreni sassosi, asciutti e poveri di sostanza organica; e, anche nei terreni leggermente salati in cui prospera, come quelli calcarei, l'unica cosa di cui ha bisogno è un terreno profondo e permeabile. Ecco perché li troviamo in Provenza.
È stato addomesticato fin dall'antichità. Inizialmente nel Vicino Oriente per la produzione di mandorle dolci, poi in tutta l'area del Mediterraneo e, in epoca moderna, nelle regioni aride di tutto il mondo. Un esempio è la California, stato degli Stati Uniti che ne è diventato il principale produttore al mondo.
Oggi, la produzione in Francia è in calo, solo 799 t nel 2017, mentre era di 4.200 tonnellate nel 1990. La coltivazione di mandorle è stata effettuata principalmente nelle provincie di Bocche-del-Rodano, Alpi-di-Alta-Provenza, Pyrenei-Orientali e Corsica su 1.142 ettari nel 2017. Il mandorlo è piantato in file su grandi aree di terreni agricoli, ma, all'epoca dell'ottocento, si trovava lungo i bordi dei campi. La Provenza è stata una delle regioni produttrici di mandorle più importanti, soprattutto nel XIX secolo. Ecco perché troviamo le mandorle in molte ricette della tradizione locale: il "calisson d'Aix", un dolce a base di pasta di mandorle e melone candito; torrone (nougat) bianco e nero, un dolce fatto con albume d'uovo e miele per il bianco o miele caramellato per il nero; il croccante (croquant), un biscotto delizioso…
Il mandorlo è uno dei simboli dell'amore e della verginità perché evoca l'abito da sposa: i fiori compaiono ben prima delle foglie e ogni ramo è completamente ricoperto di bianco.
Nell'arte, è stato esaltato dal più celebre dei pittori: Vincente Van Gogh con il dipinto "Mandorlo in fiore", dipinto nel febbraio 1890 a Saint-Rémy-de-Provence. Rende omaggio al figlio di suo fratello Théo, Vincente Willem (nato il 31 gennaio 1890), di cui divenne padrino. Per orgoglio e per onorare questa nuova vita, l'artista raffigura i rami di un mandorlo perché, come abbiamo già detto, è l'albero più precoce della primavera che, già a febbraio, si adorna di fiori per annunciarne l'arrivo: come un neonato. Si è ispirato all'arte giapponese dell'incisione per rappresentare un albero emblematico della Provenza, spesso dimenticato...

Un quartiere della città di Gardanne, situato tra Marsiglia e Aix dove vivo da alcuni anni.
Nel mio quartiere c'è un monumento dedicato ai minatori scomparsi di Biver, un quartiere o cittadina appartenente a Gardanne, un'ex città mineraria. Come avrete probabilmente capito, vi parlerò dell'attività mineraria, poco conosciuta in Provenza. E oggi vedremo da dove deriva questo strano nome "Biver".
Il nome del distretto deriva da un giovane ingegnere minerario, capitano di stato maggiore dell'esercito belga, Ernest Biver, che decise di intraprendere una carriera nell'industria nel 1854. Arrivato nella nostra regione per un incarico nelle miniere, impose rapidamente nuove tecniche di sfruttamento e gestione.
Fu dopo che Ernest Biver scoprì il pozzo della miniera nel maggio 1891 (affondato nel 1893) che il villaggio prese il suo nome. Nel 1926 divenne "Puits Biver" e nel 1946 "Cité Biver".
Un luogo insolito che racconta la storia dell'attività mineraria in Provenza e dei "Corons de Provence",(Corons: soprannomi dei minatori del nord della Francia)...

Il papavero: una pianta immancabile che vediamo nei nostri campi e lungo le nostre strade in estate!
A quanto pare il papavero o rosolaccio è originario del bacino orientale del Mediterraneo. Chiamato scientificamente "Papaver rhoeas", è una pianta erbacea annuale e appartiene al gruppo delle piante cosiddette "mesicole", termine che deriva dal latino "messio" che significa "raccolto", poiché questi fiori selvatici sono stati associati all'agricoltura fin dalla notte dei tempi. Fa parte della famiglia delle “Papaveraceae”, del genere “Papaver”: quelli che comunemente chiamiamo papaveri. La parola "papaver rhoeas" deriva dalla radice indoeuropea "papa" che significa "pappa", i suoi semi venivano cucinati in questo modo; e l'epiteto "rhoeas" deriva dal greco ῥοιάς - rhoiás, che significa secrezione (lo si ritrova nella parola "freddo"), a causa del lattice che fuoriesce quando si taglia lo stelo. Il suo nome volgare, coquelicot, deriva da una versione dell'antico francese coquerico (onomatopea del gallo) e già nel 1545 veniva scritto come "coquelicoq" perché il colore del fiore e quello della cresta del gallo sono simili.
La sua fioritura, molto abbondante nei terreni recentemente lavorati, e la messa a dimora dei semi avvengono prima della raccolta grazie al suo ciclo biologico adattato alle colture cerealicole. Ed è a partire dalla primavera che distinguiamo il papavero per il colore rosso dei suoi petali e per il fatto che spesso formano tappeti colorati visibili anche da molto lontano. Molto diffuso in diversi paesi europei, è diminuito notevolmente a causa dell'uso diffuso di pesticidi. Anche se noi adoriamo questo fiore, gli agricoltori lo considerano un'erba infestante.
Il papavero rappresenta "l'ardore fragile" ma soprattutto la "consolazione" nel linguaggio dei fiori ed è anche il simbolo dell'ottavo anniversario di matrimonio in Francia. C'è chi sostiene che sarebbe anche il simbolo di Morfeo, dio dei sogni, ma in realtà è più precisamente il papavero da oppio (Papaver somniferum) a somigliare al papavero comune e che appartiene ovviamente alla stessa famiglia.
Nell'arte è una pianta molto utilizzata e rappresentata. Il papavero è presente naturalmente in molte opere del XIX e XX secolo grazie agli impressionisti che amavano dipingere paesaggi, natura e campi come Claude Monet ("Campo di papaveri" 1873, "Campo d'avena con papaveri" 1890). C'è anche Gustave Courbet, leader del movimento realista ("Papaveri"), o Gustav Klimt ("Campo di papaveri" - 1907), pittore simbolista austriaco e uno dei più importanti membri del movimento arte nuova o stile Liberty (Art Nouveau in francese) e della Secessione viennese.
Ma preferisco parlarvi di un'opera di Vincent Van Gogh: "Mazzo di papaveri" del 1886 (inserto nella foto), perché questo artista è molto più conosciuto per i suoi girasoli o per i suoi iris! Inoltre gli è stato attribuito tardivamente. Questo dipinto, entrato nella collezione del Wadsworth Atheneum di Hartford, nel Connecticut, nel 1957 e conservato per oltre 60 anni, è stato autenticato e attribuito a Vincent Van Gogh dopo diversi decenni di speculazioni. Louis van Tilborgh, ricercatore presso il Museo Van Gogh, ha affermato in una nota: "Alcune di queste incertezze riguardano dipinti che hanno dimostrato di essere saldamente radicati nell'opera di Van Gogh e, sono lieto di annunciare, 'Mazzo di papaveri' è uno di questi". È vero che nella primavera del 1886 Van Gogh arrivò a Parigi con il fratello Theo. Il cambiamento di scenario si rifletterà nella sua opera e inizierà a dipingere nature morte di fiori; la sua tavolozza sarà quindi vibrante e i suoi contrasti drammatici. Analizza l'organizzazione floreale degli artisti giapponesi del movimento ukiyo-e del periodo Edo (1603-1868), per poi dedicarsi al lavoro sulle "sfumature intense" nella sua opera.

La Durance è un affluente del Rodano che nasce nel Dauphiné (Delfinato, regione francese del sud delle Alpi) a 2.390 metri di altitudine, sulle pendici della cima degli Angeli (Sommet des Anges). La sorgente si trova vicino al confine italiano, nel comune di Monteginevro, nelle Alte Alpi, nella regione PACA, Provenza Alpi Costa Azzurra. Il fiume prosegue il suo viaggio verso sud, attraversando le Alpi meridionali per arrivare nelle Alpi dell'Alta Provenza. Poi continua il suo corso verso ovest, a sud del massiccio del Luberon, dove il suo letto è più largo. Per concludere il suo percorso sfociando nel Rodano, pochi chilometri a sud-ovest di Avignone, tra Vaucluse (Valle chuisa) e Bocche del Rodano, di cui funge da confine.
Questo fiume, che un tempo era un fiume che sfociava nel mare, ha creato una grande valle alluvionale nella sua parte meridionale, la bassa Durance. È uno dei luoghi in cui l'agricoltura si è sviluppata grazie al buon terreno portato lì nel corso di milioni di anni.
Parliamo di un fatto singolare: durante il Miocene (12 milioni di anni fa), la Durance scorreva verso sud tra la catena montuosa delle Côtes e le Alpilles, oltrepassava la soglia del Lamanon e sfociava direttamente nel Mediterraneo, creando un grande delta di cui sono i resti dello stagno di Berre e della Crau.
Purtroppo è ancora un fiume "capriccioso" a causa delle sue piene, anche se in passato erano molto più frequenti. D'altronde, la tradizione provenzale narra che i tre flagelli della Provenza erano il Mistral (vento), la Durance (fiume) e il Parlamento di Aix (governo).
In ambito artistico, Guigou e Monticelli, pittori provenzali e amici del XIX secolo, si stabilirono a Saint-Paul-lès-Durance e realizzarono numerosi dipinti in cui lei compariva come sfondo o soggetto. In letteratura, i più celebri scrittori provenzali ne fecero un tema o un'ambientazione: per esempio, Henri Bosco ne fece un personaggio del suo romanzo "Il bambino e il fiume"; Jean Giono ne trasse ispirazione, come per "L'ussaro sul tetto", che segue il corso della Durance.
Una delle più belle rappresentazioni della Durance è rappresentata dal maestoso gruppo scultoreo del Palais Longchamp (fontana consideratta come un palazzo) di Marsiglia, realizzato tra il 1862 e il 1869 dall'architetto Espérandieu per celebrare l'arrivo delle acque della Durance in città, tramite il Canale di Marsiglia.
Per dimostrare che la Durance è nota a tutti in Provenza, e perfino in Francia, è citata in una celebre e popolare canzone di Hugues Aufray: è il fiume che risale a nuoto il "piccolo asinello grigio" nella canzone omonima.

Lo stagno di Vaccarès, nel delta del Rodano, si trova nella riserva naturale nazionale della Camarga, che dà il nome al Parco Naturale Regionale. Nel comune di Saintes-Maries-de-la-Mer, è circondato per alcuni chilometri, a ovest dal Piccolo Rodano, a est e a nord dal Grande Rodano e a sud dal Mar Mediterraneo.
Si estende su 6.500 ettari, il che lo rende lo stagno più grande di questa zona umida della Provenza. Viene chiamato "étang" in francese (stagno) dal provenzale "estang", tuttavia non è propriamente uno stagno, è quello che in geologia chiamiamo lagoon (diverso da laguna). Quando il corpo d'acqua è separato dal mare da una barriera corallina anziché da una barriera costiera, in francese si parla di lagoon. In questo caso è così, poiché c'è effettivamente della terraferma appena prima della linea delle dune, tra Saintes-Maries-de-la-mer a ovest e Beauduc a est. Un po' più a sud, sul lungomare, si trova lo stagno di Monro, una laguna poiché è separato dal mare da una barriera dunale; quest'ultimo è ben separato dallo stagno di Vaccarès da una barriera di terra.
Si dice che il nome "Vaccarès" abbia avuto origine dal fatto che sulle sue rive pascolavano numerose mucche selvatiche. Il nome in provenzale, lou Vacarés (o Lo Vacarés), significa semplicemente un luogo dove pascolano le mucche. Gli abitanti della Camargue lo chiamano "Grand Mar" perché, per le sue dimensioni, ricorda il mare.
Grazie alle sue dimensioni (12 km di lunghezza), lo stagno di Vaccarès è un elemento chiave del sistema di regolazione delle acque del delta. Grazie alla sua profondità, inferiore ai 2 metri, è un importante luogo di sosta e di alimentazione per gli uccelli migratori, tra cui il fenicottero rosa che lo ha scelto come sito di nidificazione. Tanto che l'uccello è diventato uno dei simboli della Camargue.
Protetta dal 1927 con la creazione della "Riserva zoologica e botanica della Camarga" da parte del SNPN*, è diventata una riserva naturale denominata "Riserva nazionale della Camarga" nel 1975. Ecco perché rimane uno dei siti più selvaggi e meglio conservati della Camarga. Nonostante nella zona classificata come riserva siano vietati il nuoto e la pesca, e nelle zone non classificate siano regolamentati, il traffico rimane libero sulle strade che costeggiano il lago, per poter apprezzare questo "mare" interno e speciale.
In letteratura, lo stagno è utilizzato come ambientazione per il romanzo "La bestia di Vaccarès" (La Bèstio dóu Vacarés in provenzale) di Joseph d'Arbaud (1874-1950), guardiano (pastore), scrittore provenzale e aristocratico della Camarga, vicino al marchese Folco de Baroncelli-Javon. Félibre, come quest'ultimo, Joseph d'Arbaud racconta, in provenzale, la storia di Jacques Roubaud, guardiano della Camargue nel Medioevo, che incontra una strana bestia, metà capra e metà uomo, dotata di parola.
*La Società Nazionale per la Protezione della Natura (SNPN) è una società scientifica fondata in Francia nel 1854.

Il Felibrismo (Félibrige in francese - lou Félibrige in provenzale), fondato presso il castello di Font-Ségugne (Châteauneuf-de-Gadagne, Vaucluse) il 21 maggio 1854, è un movimento che si propone di salvaguardare e promuovere la lingua, la cultura e l'identità dei paesi di lingua occitana, in particolare della Provenza. Ecco i 7 giovani poeti provenzali che lo fondarono: Frédéric Mistral, Joseph Roumanille, Théodore Aubanel, Jean Brunet, Paul Giéra, Anselme Mathieu e Alphonse Tavan, con l'obiettivo di restaurare la lingua provenzale e codificarne l'ortografia.
Nel 1855, la prima creazione dei "Félibres" fu la pubblicazione di un almanacco scritto interamente in provenzale, "l'Armana Prouvençau" (pubblicato ancora oggi). E, più tardi, la pubblicazione più importante sarà "Lou Tresor dóu Felibrige" (Il tesoro del Felibrismo), il primo dizionario provenzale-francese che propone anche i vari dialetti della lingua d'oc.
Il movimento divenne famoso grazie alla pubblicazione da parte di Frédéric Mistral di "Mirèio" (Mireille in francese) nel 1859, che gli valse il Premio Nobel per la letteratura nel 1904: "in considerazione della sua poesia, così originale, così brillante e così artistica, [...], nonché per l'importante lavoro nel campo della filologia provenzale".
Il termine "félibre" (felibre), creato dai fondatori, designa le persone dedite alla difesa della lingua provenzale. La donna è chiamata felibressa (felibresso o felibressa).
Paul Ruat (1862/-938, fondatore dell'Ufficio del Turismo di Marsiglia) ha lasciato una definizione del termine "felibre": "E poi, se un giorno vi chiedessero cos'è un félibre, potrete rispondere così: un felibre è un patriota regionale che ama il suo paese e che cerca di farlo amare; un felibre è un lavoratore della penna e della parola che si diverte a parlare la lingua della sua infanzia, quella parlata dai suoi antenati; un felibre è colui che promuove e fa conoscere le nostre celebrità locali, i nostri artisti della cazzuola, della sega e del pennello, affinché un raggio di queste glorie locali brilli sulla Francia, affinché la grande patria sia sempre più bella, più forte, più unita.
L'origine della parola è un grande mistero ancora oggi dibattuto, ma ecco le diverse proposte di uno dei più grandi felibri dell'inizio del movimento, Frédéric Mistral, che scrive nel suo "Tresor dóu Felibrige":
"Questo termine misterioso, rapidamente reso popolare dalle opere di coloro che lo avevano adottato, è apparso da allora nei dizionari francesi (Bouillet, Larousse, Littré, ecc.). La sua origine ha esercitato la sagacia dei filologi e sono state proposte numerose etimologie:
1. Felibre deriverebbe dal latino felibris o felebris, parola che si ritrova in Solino*, Isidoro di Siviglia** e Papias***, e che Ducange**** interpreta come “infant adhuc lacte vivens”, derivata dal verbo Fellare, allattare, il quale Fellare diede alla luce filius, figlio. I poeti, da tempo immemorabile, sono stati chiamati "bambini delle Muse, alumni Musarum" e, come osserva il signor G. Garnier, alumnus, in latino, aveva il significato attivo e passivo e designava il discepolo e il maestro, come escoulan in provenzale. [...]
2. Felibre deriverebbe dal greco "philebraïos", “amico dell’ebreo”, [...] che, per lungo tempo, è stato applicato nelle sinagoghe ai dottori della legge.
3. Felibre deriva dal greco "phílabros", “amico della bellezza”.
4. Felibre deriva dall'irlandese filea, poeta, bardo.
5. Felibre deriva dal germanico felibert, il cui significato è ancora sconosciuto.
6. Felibre deriva dal provenzale fe, libero, libero per fede.
7. Felibre deriva dall'andaluso filabre, il cui significato non conosciamo (Sierra de Filabres è una montagna dell'Andalusia)
Quanto all'etimologia che spiega felibre come "libraio", non regge all'esame, poiché non è nel genio della lingua, perché in questo caso diremmo fa-libre o fai-libre. »
*Solino fu un grammatico e compilatore di espressioni latine, vissuto nel III o IV secolo.
** Isidoro di Siviglia, ecclesiastico e vescovo del VII secolo, famoso per la sua opera principale Etymologiae (enciclopedia di etimologia).
***Papia fu un lessicografo di lingua latina vissuto in Italia a metà dell'XI secolo.
**** Ducange: Charles du Fresne, signore di Cange o Du Cange è uno storico, grammatico e filologo francese del XVII secolo, noto principalmente per il suo glossario latino.

Una delle particolarità della Provenza è la vegetazione tipica del luogo, chiamata gariga. Si estende sulle colline di questa regione da dove è facilmente raggiungibile.
Si tratta di una formazione caratteristica delle regioni mediterranee che si sviluppa su terreni calcarei e occupa circa 400.000 ettari, principalmente in Provenza e Linguadoca. Questo termine è anche associato alla stratificazione della vegetazione. La gariga (guarrigue in francese) può essere confusa con la macchia mediterranea (maquis in francese), che cresce su terreni silicei ed è presente in Francia, principalmente in Corsica, e anche nella nostra regione nei massicci dei Mori (Maures) e dell'Esterel.
L'origine della parola deriva dal provenzale “garrigo” che deriva dal latino medievale “garrica” o “garriga”. È probabilmente legato al termine provenzale garric, “quercia spinosa”, arbusto tipico della nostra regione. Un'altra particolarità è che troviamo in questo termine il prefisso gar: radice preindoeuropea (come gal, kar o kal) che significa "pietra" o "roccia", presente anche nelle parole calanco (calanque), carsico (karst), calce (chaux), ciottolo (caillou) o ancora Canaille (il nome di un capo in Provenza).
Questo è il posto giusto per molti cespugli, tra cui i più comuni sono la ginestra selvatica provenzale (sopra), il lentisco, la quercia spinosa, il bosso, il ginepro comune, la ginestra scorpione (o ginestra spinosa). Poi scopriamo altri arbusti più rari o meno conosciuti come il ginepro fenicio, il ramno, il gelsomino legnoso, il cisto cotonoso, il cisto odoroso, il cisto salvia... Troviamo anche alcuni alberi, anche se si tratta di una vegetazione tipicamente bassa, come il leccio, il ginepro e uno dei simboli della Provenza: l'ulivo. Ci sono poi le piante che rendono famosa la Provenza, come la santoreggia, il rosmarino e il timo: le famose piante che fanno parte delle erbe aromatiche provenzali; e poi alcune piante erbacee molto note come il caprifoglio, la salsapariglia, la robbia viaggiatrice e altre meno note come l'afillanto di Montpellier, l'asfodelo, l'euforbia, l'ofride gialla... e tante altre...
In letteratura, André Gide, uno scrittore francese, scrisse in "Se il grano non muore" nel 1926: "Al ponte di Saint-Nicolas la strada attraversava il Gardon; era la Palestina, la Giudea. Mazzi di cisti viola o bianchi adornavano la rauca macchia, profumata di lavanda. Un'aria secca e spensierata soffiava su di essa, pulendo la strada e spolverando la zona circostante. (…) Lungo le rive del Gardon crescevano asfodeli e, nel letto del fiume stesso, quasi ovunque asciutto, una flora quasi tropicale".
In campo artistico, Paul Cézanne è il pittore che ha maggiormente rappresentato questa vegetazione, anche se non ne è il soggetto principale, grazie a tutte le opere di Sainte-Victoire nei pressi di Aix ("La Montagne Sainte-Victoire" 1897-1898 al Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo) o a quella di L'Estaque a Marsiglia ("Rochers de L'Estaque", 1882-1885 circa).

Situata nella provincia (dipartimento) del Var (forma italiana desueta Varo), 16 km a est di Tolone, "Hyères-les-Palmiers", come era conosciuta nel XIX°s, è una località balneare chiamata Hyères (nome ufficiale).
Il comune aggiunse "palme" in quanto nel comune erano state piantate 7.000 palme, coltivate nei vivai e praticate fin dal XIX°s: a partire dal 1850, i primi tentativi di acclimatare piante esotiche sulla Costa Azzurra furono effettuati a Hyères, grazie ad orticoltori che esportarono palme e cactus.
A partire dal 1830, sotto la guida del suo sindaco Alphonse Denis, Hyères divenne una stazione climatica invernale rinomata per le sue cure termali. Era già frequentato dall'aristocrazia e dalla borghesia, in particolare dagli inglesi, ben prima di Nizza e Cannes, perché a quell'epoca era troppo pericoloso attraversare i massicci dei Maures e dell'Esterel (a est verso Nizza e l'Italia) in carrozza trainata da cavalli. Questa attività turistica lascerà un'impronta architettonica ancora visibile nell'attuale paesaggio urbano grazie alle seconde case costruite, come "Le Plantier de Costebelle" che è una casa neopalladiana costruita a partire dal 1857 dalla baronessa Hortense Pauline Husson de Prailly.
Come molti artisti che vengono nel Sud-Est per il sole e la qualità dell'aria di mare, Stéphen Liégeard (1830-1925), politico e poeta originario di Digione, possiede una villa a Cannes (di proprietà della moglie) dove trascorre l'inverno. Nel 1887 pubblicò il libro "La Côte d'azur" (Costa Azzurra), che diede il nome al litorale da Marsiglia a Genova, in cui descrisse tutte le città, compresa Hyères. Vi dedica 7 pagine: “Lungo questa spiaggia bagnata di raggi che merita il nostro battesimo di Costa Azzurra, Hyères, la prima, ebbe l’idea di mettere i suoi doni benedetti al servizio della malattia o della disperazione. All’anima colpita, al corpo debole, cosa poteva offrire? La sua campagna al riparo dal maestrale [...]”. Questo passaggio, male interpretato, porta a credere che lo scrittore abbia avuto l'idea di "Côte d'Azur" a Hyères, che non menziona da nessuna parte nel suo libro, né più avanti nell'edizione del 1894.
Le origini di Hyères risalgono al IV secolo a.C. Giovanni Battista Intorno al 325 a.C., i Greci di Massalia fondarono un avamposto commerciale fortificato nel luogo chiamato Almanarre: l'attuale Olbia in Provenza. Olbia in greco antico significa benedetta, prospera, fortunata... Era una "colonia fortezza" il cui scopo era quello di fornire scalo, rifugio, protezione militare ed equipaggiamento alle navi mercantili massaliote in rotta verso l'Italia e viceversa. Questo sito venne definitivamente abbandonato solo nel VII°s a favore di una protezione più elevata, sulla roccia dove sorge l'attuale centro storico di Hyères, probabilmente a causa della sommersione del porto e dell'aumento dell'insicurezza sul lungomare.
Tuttavia, questo nome non deriva dalla sua antica origine. Hyères viene menzionata per la prima volta nel 963 nella forma Eyras, che indica l'intero sito: la città con il suo porto e le sue isole. Chiamato "Iero" in provenzale, la "h" aspirata non esiste in questa lingua, il che lo rende una fantasia grafica tardiva. Nel 1801 il nome della città veniva scritto "Hières" o "Hyères".
Deriva dal latino "area" che significava "spazio aperto", assumendo poi i significati di "cortile, giardino e area". Sembrerebbe quindi che questo nome derivi dalle grandi zone di essiccazione del sale, le saline (Salins-d'Hyères), presenti fin dalla tarda antichità. Il termine latino "area" indicava anche le saline.

Incorniciata dagli stagni di Berre e di Olivier, Istres si trova ai margini della pianura della Crau. Un luogo tra acqua e terra, ideale per i primi popoli che si insediarono nella nostra regione.
L'origine del comune risale al VI secolo a.C., dove venne fondato un piccolo insediamento nel sito noto come "oppidum du Castellan", a sud dello stagno Olivier e non lontano dall'attuale città. Il luogo rimase occupato fino all'inizio del Medioevo. A partire dal X s., una fortificazione signorile che allora portava il nome di "Ystro" compare per la prima volta in una carta di Corrado il Pacifico, re di Borgogna e Provenza, dove si specifica che la città aveva un castello (castrum) e che doveva determinate somme per i beni appartenenti all'abbazia di Montmajour (Arles). A partire da questo periodo, Istres si svilupperà attorno a questo nucleo feudale circondato da mura. Così, attorno alla chiesa e al castello, si formò l'attuale centro storico.
È piuttosto l'epoca contemporanea che segnerà la città con la scuola di aviazione fondata nel 1917: fu una delle prime espansioni della città, diventerà poi una delle più grandi basi aeree di Francia. Il primo boom industriale della città si deve alle fabbriche di soda e fertilizzanti dello stagno di Rassuen nel 1808. Solo molto più tardi, a partire dagli anni '70, si è assistito a un'accelerazione del tasso di crescita con il complesso industriale di Fos-sur-Mer, non lontano: una rapida urbanizzazione con nuovi quartieri tra il centro storico e la frazione di Rassuen. Il numero degli abitanti è triplicato in circa trent'anni.
Nonostante questa significativa industria e demografia, il centro ha conservato la sua immagine di un pittoresco villaggio costruito su una roccia in riva a specchi d'acqua: un villaggio provenzale ai margini di una natura specifica.

L'albero di Giuda, detto anche albero di Gerusalemme, appartiene alla famiglia delle Fabaceae (Fabaceae e precedentemente Caesalpiniaceae). È un albero deciduo con fiori, originario dell'Europa meridionale e dell'Asia occidentale.
L'albero sciafilo (che ama l'ombra) è presente naturalmente nella macchia mediterranea* e teme le gelate tardive. È un albero rustico che preferisce terreni asciutti e calcarei e tollera anche quelli compatti, il che lo rende adatto alla Provenza e agli ambienti urbani. Ad aprile, questo albero mostra i suoi bellissimi fiori rosa o addirittura viola brillante, dando l'impressione di essere in Giappone durante la stagione della fioritura dei ciliegi (sakura).
Il suo nome deriva dalla sua regione d'origine, la Giudea. Il suo nome greco è cercis, da cui il nome del genere. Cercis deriva dal nome della spola del tessitore, alludendo al baccello dell'albero che gli somiglia: questo baccello appiattito è il frutto caratteristico dei legumi.
Secondo una leggenda di origine sconosciuta, tratta da un testo apocrifo, si tratterebbe dell'albero scelto da Giuda Iscariota per impiccarsi dopo aver consegnato Gesù. I suoi fiori, che hanno la forma di lacrime, sono quelli di Cristo e il loro colore, il viola, rappresenta il colore della vergogna. Si dice che dopo la tragedia l'albero cominciò a fiorire. Poiché la fioritura avviene intorno alla Pasqua, i primi cristiani la consideravano un miracolo... Ma è soprattutto per la sua abbondanza in Israele che ha ricevuto questo nome. Si dice che sia stato probabilmente introdotto in Europa all'epoca delle Crociate, in relazione al ruolo che ebbe nella Passione di Cristo.
A causa di questa associazione, l'albero era tradizionalmente considerato maledetto: veniva soprannominato "albero del tradimento", il che suggerisce che avesse sempre avuto una reputazione sinistra. Ecco perché questo albero è raramente raffigurato nell'arte, mentre nelle chiese viene spesso utilizzato come simbolo di perdono e redenzione. Tuttavia, veniva utilizzato per produrre pigmenti per artisti e inchiostro da stampa.
Purtroppo, nella pittura, questo albero è molto raramente rappresentato, soprattutto qui in Provenza, nonostante proliferi ovunque. Ma c'è un'opera che ho trovato in Francia: "L'albero di Giuda" di Emile Gallé. Nato nel 1846 a Nancy, fu artista, artigiano e industriale. Fu un difensore delle arti decorative e della loro vocazione sociale. È appassionato di botanica ed entomologia. Il suo lavoro nasce dall'osservazione della natura, che trasforma in spettacolo. Émile Gallé fu particolarmente vicino a Eugène Rousseau, Eugène Vallin e a molti altri artisti del movimento delle arti decorative...
Nella cultura popolare francese, l'albero è menzionato nella canzone "Auprès de mon arbre" ("Vicino al mio albero") di Georges Brassens: "Ora ho dei frassini, degli alberi di Giuda, tutti di buon seme, di alta foresta."

Il grande villagio in cui sono cresciuto gode già di una piccola reputazione nell'ambito della musica classica, poiché ospita il Festival Pianistico Internazionale, considerato "la Mecca del Pianoforte".
Nel cuore della Provenza e adagiato sui pendii settentrionali di "Trévaresse" nome delle colline, non ha nulla da invidiare ai "più bei villaggi di Francia" del celebre massiccio del Luberon che si trova di fronte (Parco Naturale Regionale) per la sua storia e la sua posizione.
Il nome di questa cittadina è piuttosto originale nella regione. Deriva dal nome del signore che possedeva le sue terre e dove andava a cacciare. Il Signore Tarron fece costruire un padiglione di caccia sulla cima dell'attuale villaggio, su una roccia sulla collina. Citato nel 1037 con il toponimo Roca, il nome della città ha ancora un'etimologia controversa: La Rocca d'An Tarron (nel 1200), Roccha Tarroni (nel 1274), Rocca d'en Tarron, Rocca de Tarronis... Qualunque cosa sia, siamo effettivamente nella terra de "La rocca del Signore Tarron" trasformata nel corso dei secoli in La Roque d'Anthéron!
Questa è già una caratteristica curiosa, tuttavia parte della sua storia è altrettanto curiosa...
Siamo nel quattrocento, il secolo del Rinascimento, un periodo di evoluzione del pensiero umanistico e della scienza, ma anche di malattie (influenza, peste...), di inverni gelidi che provocarono carestie e poi, tra le altre cose, guerre, e un secolo che è ancora segnato dalla "Grande Peste Nera" del XIV secolo (1347-1352) che decimò più del 50% della popolazione.
Fu in questo contesto che Jean de Forbin, figlio di Jean II, signore di La Barben e Autan, firmò un "atto di abitazione" con 70 famiglie di coloni: La Roque-d'Anthéron rinacque e venne edificato il centro dell'attuale città. Tra questi coloni, un gran numero sono figli di coloni valdesi stabilitisi nel Luberon da una generazione e provenienti principalmente da Cabrières d'Aigues, un villagio di questa montagna.
Altra singolarità: tra il 1557 e il 1558, fu qui che Adam de Craponne, ingegnere del re, aprì un canale rivoluzionario che trasportava l'acqua della Durance da La Roque a Salon-de-Provence, prolungato in seguito (1581) dai fratelli Ravel, ex livellatori di Adam de Craponne, fino alla pianura di Crau e Arles. Questo canale allontanò lo spettro della sete dalla città di Nostradamus e permise la costruzione di mulini lungo il suo corso.

La valeriana rubra o rossa è una pianta che si può vedere ai bordi delle strade e sui sentieri della Provenza e, naturalmente, nei nostri giardini...
Valeriana è il nome comune francese o italiano che corrisponde a circa 150 specie di piante della famiglia delle “Valerianaceae”, principalmente del genere “valeriana”. Si dice che questo nome derivi dalla provincia romana di Valeria, in Pannonia, un'antica regione dell'Europa centrale. E come si potrebbe credere dalla sua etimologia, non deriva dal latino valere (valoroso, coraggioso).
In queste foto scattate nel mio quartiere, scopriamo la specie chiamata Centranthus ruber, valeriana rubra, spesso chiamata "valeriana da giardino" o soprannominata "lillà spagnolo" grazie alle sue origini mediterranee. Non è un arbusto, ma una pianta perenne e resistente. Disponibili in abbondanza da maggio fino all'inizio dell'autunno, i fiori della valeriana da giardino possono essere bianchi, rosa o rossi. Di recente la valeriana rossa è stata classificata come appartenente alla famiglia delle Caprifoliaceae e non a quella delle Valerianaceae.
Si distingue tra la "valeriana da giardino" o "valeriana rossa" (Centranthus ruber), che prospera in terreni poveri e soleggiati, e la sua cugina, la valeriana comune (Valeriana officinalis), che preferisce terreni più freschi e ombra parziale. Ve ne parlo perché questa varietà è molto conosciuta come pianta medicinale. La valeriana è utilizzata sotto forma di oli essenziali, ma anche di capsule e tisane: la sua radice ha proprietà antistress che facilitano il sonno.
Le rappresentazioni nell'arte sono quasi inesistenti, tranne che nei libri. Ad esempio, qui, nella presentazione, si nota il dettaglio di una tavola di un manoscritto che rappresenta uno stelo di valeriana [Pseudo-Galeno, Kitâb al-diryâq (Libro della teriaca). Jazirah?, 1199 - BNF, Manoscritti (Arabo 2964)]. In questo libro vengono presentate le piante che compongono la teriaca. Contiene 13 pannelli raffiguranti piante e ogni pannello, composto da 6 caselle, mostra uno degli ingredienti. Il nome di ogni specie è inciso sopra l'immagine in caratteri cufici ornamentali.
La teriaca è un antidoto portato a Roma da Pompeo e poi sviluppato da Andromaca (medico di Nerone). E più tardi, Galeno, medico di Marco Aurelio (II secolo), contribuì alla sua straordinaria fama! Si diceva che fosse efficace contro tutti i tipi di avvelenamento: da piante come il papavero e la cicuta, da morsi come quelli di cani rabbiosi o vipere, da punture come quelle di scorpioni o coleotteri vescicanti... Infatti, efficace contro tutti gli avvelenamenti e tutti i tipi di veleno, si diceva che fosse efficace anche contro la peste e molte malattie...
Preparata dagli speziali, la composizione della teriaca è variata notevolmente; e quelli preparati a Venezia e a Montpellier erano molto famosi durante l'epoca moderna. Con una preparazione che dura più di un anno e mezzo a causa della fermentazione, la sua ricetta comprende più di 60 ingredienti vegetali, minerali e animali: vino e miele, genziana, pepe, mirra... carne di vipera essiccata e rognoni di castoro, per esempio. La formula passò da 74 ingredienti nell'antichità, poi ridotti a 58 prima della rivoluzione, per arrivare a 52 durante l'ultima preparazione pubblica avvenuta nel settembre 1790. Consumata fino alla fine dell'Ottocento, la teriaca fu rimossa dal Codex nel 1884 per vari motivi, tra cui il rifiuto della medicina empirica di allora.